La lettera spedita da Nikolaj Ivanovič Bucharin alla giovane moglie Anuska arriva cinquantaquattro anni dopo. In essa vi era contenuto quel sentimento sul quale Norberto Presta avrebbe potuto imbastire uno spettacolo di infiniti atti, se solo non fosse stato travolto dall’esistenza tutta di Bucharin e dall’urgenza di raccontarla, per traslati.
Il paradigma di un destino a sbrogliare il groviglio di tutti i crimini perpetrati quando l’idea di rivoluzione più non esisteva e istanti squisitamente poetici ad ammansirne la veemenza.
Bucharin fu giustiziato da Stalin nel 1938 dopo un sommario processo politico che inchiodava prima di tutto la coerenza, la fedeltà a un ideale.
Esponente di spicco di della Rivoluzione d’Ottobre, Bucharin assiste suo malgrado al disfarsi di un sogno, al lento inesorabile declino del bolscevismo. Lì, tra le pieghe di un vissuto che sanguina, si insinua l’amore, cui compete superare uno a uno i colpi inferti dal destino.
Prima ancora di quel soggiorno a Parigi che poteva significare salvezza e che però è stata l’ultima boccata di bellezza sul limitare della sconfitta, la collezione di farfalle ad Amsterdam. Centomila specie di lepidotteri che per un istante si affacciano sul mondo e poi muoiono. Metafora di un’umanità intera protesa verso il salvifico quanto utopico processo di metamorfosi che ai più è precluso. Il bozzolo una prigione, la farfalla un lontano miraggio.
In scena al Clan Off, sesto spettacolo della rassegna #r-esistenze, “Il beniamino delle farfalle” segna il gradito ritorno dell’attore italo-argentino Norberto Presta, qui intimamente combattuto tra il desiderio di rappresentare e quello di vivere la tragedia di Bucharin, caricandosi il peso dell’ultimo disperato tentativo di perpetrare l’istante, durato anni, in cui semplicemente si è provato a vivere.
Un orologio da tasca a scandire il tempo; una sedia a spalleggiare la teatralità di Presta, che basta a sé stesso e che nulla ha da reclamare alle cose che non possa reclamare al proprio corpo, a quegli occhi che scavano nelle coscienze che incrociano, a quei piedi che strisciano e danzano e scalciano. Via i lacci, ora che l’ultimo legame è stato falciato. Ora che Bucharin, gessato grigio e cravatta rossa, può concepire con la mente il suo stesso funerale, nella piazza Rossa, tra le bandiere del partito e le lacrime di un folle. Ora che un’urna lo attende. Ora che restano foto sbiadite di singoli affetti a ricomporre un quadretto familiare mai stato tutto intero. Ora che il sogno della rivoluzione è carta rossa da ritagliare, sono farfalle da far volare. Pochi battiti d’ali prima di morire.
Sullo sfondo la poesia. Parole d’amore imbavagliate dal tempo. Interrotte dalla storia e da quei lampi di giocondità che drammaturgicamente sorvegliano l’aritmia della rappresentazione, prima che datate sonorità possano accelerare di nuovo i battiti, captando i palpiti di un attore che possiede il privilegio di subordinare a sé qualsivoglia espediente teatrale e mai soggiacere a esso.
Mentre crollano i muri tra Bucharin e chi ne apprende per la prima volta la storia, tra Norberto Presta e lo spettatore, tra Bucharin e Presta stesso, la storia d’amore resta lì. A scansare i calcinacci del crollo, a ratificare le crepe del vivere e l’inutilità del morire. Un battito d’ali appena e l’onestà di non volerlo a tutti i costi enfatizzare.