Ospite del Cortile Teatro Festival, è andato ieri in scena all’Area Iris lo spettacolo “Vivere!” di Anna Piscopo e Lamberto Carrozzi, interpretato da Anna Piscopo, coproduzione Bam Teatro – Nutrimenti Terrestri, in collaborazione con Beat 72.
Una prima nazionale che esplora il piccolo e affollato universo dell’accumulatrice seriale Calimba Di Luna, minacciata da un mondo fuori che non sembra minimamente comprenderla.
Il viaggio interiore della donna cui assistiamo ritrae a tinte forti fragilità, solitudine, la disperazione che si accavalla a quella insania sulla quale solo lo spettatore, a differenza della società, può posare uno sguardo indulgente.
È il teatro, così, a consegnarci ancora una volta la verità. A permetterci di guardare oltre le apparenze, a provare un sentimento di vicinanza ai tormenti altrui.
Talento e versatilità contraddistinguono il lavoro di Anna Piscopo, attorialmente faticoso e costretto a soffrire l’abbondanza di una drammaturgia che avrebbe meritato qualche taglio utile alla scorrevolezza della messa in scena. Molti passaggi hanno pagato la ridondanza a livello testuale e la stessa regia ha arrancato nel governare tanta materia.
Ci si è peraltro acciambellati su una terra di mezzo che sembrava sempre sul punto di trasfigurarsi, in chiave comica o drammatica, ma che puntualmente indugiava su una moderazione a mio avviso inefficace. Le azioni sceniche sono risultate, inoltre, troppo impulsive e accidentali, finendo per alterare il basilare legame con lo spazio.
Ma era una prima e, come tale, scontava il prezzo del rodaggio mancato. V’è tempo per aggiustare il tiro e i presupposti della perfettibilità certo non mancano.
Lo spettacolo si prefiggeva la trattazione di una tematica molto interessante da un’angolatura specifica: l’occhio nel buco della serratura al di là della quarta parete. E così infatti è stato, dacché il puzzle dell’esistenza di Calimba, una volta incastrati tutti i pezzi, si è rivelato al pubblico col suo carico di bellezza e difformità.
Le anime sono complesse, sono perlopiù imperscrutabili, sono il risvolto quasi sempre problematico della vita già vissuta. Il merito di Piscopo e Carrozzi è quello di aver restituito al pubblico una Calimba vera, sia davanti sia dietro lo schermo o la cornetta di un telefono. Lenendo il dramma coi colori, la musica, gli oggetti che davano conforto e contemporaneamente strangolavano il tentativo disperato di risalita.
Chi fosse Papi, l’individuo conosciuto in chat, non ci è dato sapere. Né giova ai fini della comprensione della porzione di vita andata in scena. Conta piuttosto che Papi, vuoi che fosse un’illusione, vuoi il rimedio peggiore del male, vuoi un espediente per strappare Calimba al suo destino, in realtà non abbia minimamente inciso sulla storia di questa donna cui persino la morte fa meno paura della vita.
La verità è che fuori dai ranghi di un’esistenza “normale” devi necessariamente combattere. La forza che necessita la guerra pare sia inversamente proporzionale agli espedienti autolesionisti che metti in pratica nel quotidiano. E via via che ti allontani dalla prassi socialmente condivisa del vivere imbocchi una strada senza ritorno. A ogni tornante sempre più rischiosa.
Calimba, alla sua maniera, ti racconta come si imbocca quella strada e di riflesso cosa si prova a percorrerla. Paralizzata per giunta dalla paura, prostrata dalla solitudine, inchiodata dal giudizio. E ti racconta tutto questo perché evidentemente a teatro si trova clemenza più che altrove, perché magari a teatro, innanzi all’anomalia, si riesce a riflettere, a rivedere, a sbeffeggiare se è il caso, il concetto di normalità come costruzione socio-culturale.
Il disturbo reale di Calimba, sul quale sfrontatamente ricama la TV, è quindi solo un pretesto per riflettere una volta di più sull’incommensurabilità della solitudine, all’inaridirsi della nostra dimensione sociale, nell’era della comunicazione globale.