Dall’aula di un tribunale, dove si attende la sentenza, all’aria da respirare a pieni polmoni, appena fuori. È lì, insomma, che si apre e si chiude il cerchio di un’esistenza, quella di Giacomo Sereni, carabiniere, marito, eroe, martire. Ché semplicemente a vivere si compie un atto eroico, meno rinunciandovi. Ché il martirio è sempre e comunque a portata di mano.
Queste le premesse di “Ultimo di trentamila. Il romanzo di un eroe dello Stato” (ed. EllediLibro) del giornalista messinese Roberto Gugliotta.
La prosa è quella del cronista: agile, schietta, asciutta persino nell’esplorare la coscienza del protagonista, nell’abbandono a quella filosofia del vivere che supera i confini del singolo e investe, nella sua complessità, ogni essere umano.
Il punto di partenza è il dolore personale, che scorre parallelamente al disagio condiviso dinanzi al male. Le vicende di Giacomo si intrecciano così a quelle di un Paese che sulla carta combatte i mostri e nella realtà crocifigge la gente perbene.
Quando il destino si mette di traverso, con ferocia e inesorabilità, l’esistenza del protagonista deraglia. La fuga allora diventa inevitabile tanto quanto il desiderio di consumarsi, di perdersi per strada, di vivere la strada. Esposto nel caso di Giacomo a un caldo e un freddo sempre più sopportabili dello strazio che comporta la perdita di una persona cara.
L’arte dell’uomo, persino dell’ultimo, consiste nella rimozione più o meno consapevole del dolore. Ma quello è lì. E ti segue. E tu non hai scampo. Ti abitui ai bassifondi, alla violenza, alla fame. Ti abitui a vivere senza niente. Ma il dolore rimane. Ed è passato che non smetterà mai di bussare alla tua porta.
Il lettore, sulle prime, è indotto a concentrarsi sui rischi che corre il carabiniere, sui sacrifici di un uomo che all’Arma ha scelto di consacrare la propria esistenza. Il fine è quello di sgombrare il campo dal male o, se non proprio il campo, almeno qualche centimetro.
Poi, però, subentra il destino a sparigliare le carte: la vittima designata sopravvive, tuttavia spoglia persino di sé.
Una spiritualità cristiana aleggia sul protagonista senza ch’egli ne sia cosciente. Sono del resto gli ultimi i principali destinatari del messaggio di quel Cristo che sembra nascondersi tra gli anfratti delle strade, sotto ai ponti, tra le scatole di cartone.
Eppure è sul concetto di fatalità, esemplificato con ingegno, che ci si ferma. Innanzi a un prete che non calca mai la mano, a un disperato, alla fatalità appunto e all’ennesima chance di ricominciare. Con l’unico bene che davvero si possiede: il passato.