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Mero esercizio di stile l’Enigma di Stefano Massini al Vittorio Emanuele

Pare non sia bastata la pregevole recitazione di Ottavia Piccolo e Silvano Piccardi per risarcire lo spettatore d’una attesa, lunga dieci segmenti, che lasciava presagire una risoluzione dell’enigma meno scontata.
Si è pertanto assistito al Vittorio Emanuele di Messina a un mero esercizio di stile, a una storia che ci si aspettava decollasse da un momento all’altro e che però è rimasta lì, nella penombra di un appartamento grigio della Berlino est, come sospesa tra il presente e il passato, a crogiolarsi su un’ambiguità via via sempre meno inafferrabile.
“Enigma” di Stefano Massini puntava tutto sull’assioma, che ne costituisce peraltro il sottotitolo, “niente significa mai una cosa sola”. Scenario più che mai idoneo al frantumarsi d’ogni certezza, la Berlino post-unificazione si prestava all’effigie di un mondo fradicio, come Ingrid e Jacob, di menzogne sulle quali ossimoricamente impalcare la verità.
Cade il muro a Berlino, niente è più uguale a niente, nessuno è più uguale a nessuno. Resta tuttavia la memoria d’un tempo che pretendeva l’omologazione e giorno per giorno la riscuoteva ficcando il naso nelle altrui vite.
La partita a due giocata da Ingrid e Jacob sulla scena risulta allora finta sin dalle prime battute. Lo spettatore è in guardia (“almeno uno dei due personaggi sta mentendo”), l’anonimato iniziale non risulta credibile malgrado il controllo dell’espressività degli artisti, il bandolo della matassa è troppo a portata di mano.
Il perseguitato che perseguita sarebbe di per sé una bella trovata se il dossier di Jacob contenesse una storia meno lineare di quella contenuta nel dossier di Ingrid. Ma da due insegnanti, quantunque uno si fosse prestato al sistema di controllo dell’ex DDR e l’altra ne avesse seguito per vendetta le orme, cosa avrebbero mai potuto nascondere di così stuzzicante?
Resta, come è giusto che sia, la storia incisa nella carne. Resta la sofferenza. Resta la rinuncia a una normalità troppo a lungo sperata. Ma non coinvolge quel gioco teatrale che si svolge all’insegna di un passato già terra straniera ove dare la caccia al dettaglio risulta finanche superfluo.
In quella abitazione di crepe, quadri, fascicoli monocromi, solo la maglia rossa di Ingrid richiama il pruriginoso che ci si aspettava. Ché i pezzi del puzzle si incastrano troppo presto, che ogni tranello drammaturgico risulta, al pari della Berlino est, un esperimento fallito. Ché le intimità vicendevolmente rubate pareggiano sì i conti ma certificano la vanità del tutto.

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