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Il teatro che impasta tempi, visioni, coscienze e makallè

“Makallè”, prodotto da Bottega del pane, racconta una storia di emancipazione femminile. E di libertà

Juta riversa su cubi neri: la trama naturale e grezza dell’esistenza che si adagia sulle geometrie restrittive e indeformabili della società.

Una donna vestita di nero si rivolge amorevolmente a una bambina con quella vivacità espressiva che dipinge scorci di una Sicilia familiare, ripetutamente vista e udita e, malgrado ciò, sempre nuova.

Le generazioni si susseguono, mutano le abitudini, il dialetto fa spazio all’italiano, la rassegnazione cede il passo ai sogni. Ci si aggrappa al passato con difficoltà, la battaglia che si ingaggia contro il cambiamento è persa in partenza.

E Aurora Miriam Scala, in questo incantevole universo nostrano, si muove con estrema disinvoltura. Sa coglierne quei colori, quelle sfumature impercettibili che poi le parole concretizzano sulla scena. La sua è una scrittura possentemente visiva e molto fa affidamento sul codice comune e condiviso, sulla comune realtà, sul forte legame tra la lingua e le cose, tra la lingua e le anime.

L’autrice coglie l’avvicendarsi, non facile, non armonioso, di due generazioni. E, se lo scialle e gli anfibi possono stare bene insieme, sono piuttosto le ambizioni e i sogni di una giovanissima Angela a stridere con la capacità di rassegnarsi, con quella di tacere o, peggio, di obbedire a un universo maschile arrogante e discriminatorio.

Angela nasce e la madre muore. La tragedia a guastarle il mondo attorno, il dolore del padre a rimbalzare sulla sua incolpevole esistenza.

La casa è sventurata e le disgrazie trovano risposte plausibili nella superstizione. Angela stessa è semenza di disgrazia. Un destino segnato se non fosse germogliato in lei quel desiderio lecito e irrefrenabile di cambiarlo.

“Makallè”, prodotto da Bottega del pane, racconta dunque una storia di emancipazione femminile. E di libertà. Ché la libertà dimora nelle piccole cose, nella realizzazione di desideri a portata di mano, come quello di diventare pasticciera perpetrando la tradizione familiare. Come quello di impastare e friggere makallè alla ricotta, con gocce di cioccolato: i dolci che piacevano a Garibaldi e che sono un inno alla vita.

Poco importa ad Angela che le donne non possano diventare pasticciere. Ci si può ispirare a Gian Burrasca per assomigliare ai maschi, si possono rubare le ricette al padre, si può contare persino sulla sventura, fortunatamente a tempo, che mette per necessità la pasticceria nelle sue mani e lei dimostra finalmente che cosa è capace di fare. Proprio lei, Angela, che non era buona neppure per il gelo al limone.

Attorno alla protagonista, ad affrescare quel tempo, a concepire un vero e proprio bozzetto d’ambiente, personaggi oltremodo rappresentativi. E sono pennellate dense di tinte, di sembianze plausibili, di brillante ironia.

È chiaro tuttavia che un’operazione come quella di Aurora Miriam Scala, a ricostruire tutto un mondo e a scandirlo nei tempi esatti e coi ritmi elevatissimi di una regia che esclude i respiri non necessari, non poteva prescindere da un’attrice straordinaria che se ne facesse carico. E qui entra in gioco Carmela Buffa Calleo, originaria di Modica e catanese d’adozione, che vanta mimica espressiva, tecnica gestuale e vocale sbalorditive. Plasma, inoltre, il dialetto della scrittura per adattarlo al personaggio e dà l’idea di prendersi le opportune licenze, di conformare le esigenze drammaturgiche al suo personale sentire. Procede per sottrazione di teatralità, cui ben si presta l’uso ostinato del dialetto, e poi a un tratto insegue l’artificio che sospende a mezz’aria la storia, la trasloca, la universalizza.

L’attrice non rimane mai imprigionata in un unico stile recitativo e questo concorre alla perfetta riuscita di uno spettacolo che, a livello già di scrittura, impasta tempi, visioni, coscienze. E makallè. Perché la potenza di una storia dipende molto dalla capacità di raccontarla combinando elementi, percorrendo strade impervie, inseguendo le note di Rita Pavone con gli occhi lucidi ora del dispiacere ora della speranza.

Terzo appuntamento del Festival giunto alla sua tredicesima edizione – grazie alla perseveranza del direttore artistico Roberto Zorn Bonaventura, di Giuseppe Giamboi e Stefano Barbagallo che lo hanno ideato insieme a lui, nonché grazie alla collaborazione dei tanti altri che li coadiuvano – “Makallè” si era aggiudicato lo scorso anno proprio il premio Cortile Teatro Festival, uno di quelli assegnati da Teatri riflessi 8, la rassegna internazionale di corti teatrali che ha luogo a Zafferana Etnea.

E ieri sera, nel cortile di palazzo dei Leoni ove “Makallè” è andato in scena, si è ben compreso quanto essenziale sia, specie in questo tempo, dare voce a una drammaturgia contemporanea che in Sicilia vanta talenti straordinari e che ha tanto tanto da dire.

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