Al centro della scena un parallelepipedo nero. Attorno il vuoto. E il buio. Tocca agli occhi azzurri di Giovanni fermare la vita che scorre loro innanzi e restituirla allo spettatore, con la purezza e l’incanto assegnatigli dal caso in un mondo per nulla incline a comprenderle.
Il colore degli occhi e il biondo dei capelli, in una Palermo arabeggiante, costituiscono l’anomalia della forma atta a mascherare una diversità sostanziale della quale Giovanni non è indispensabile prenda coscienza.
“A testa sutta” di Luana Rondinelli, in scena al Clan Off nell’ambito della rassegna R-Esistenze, è il dramma inconsapevole di un “abbabbasunatu” che apprende poco per volta la vita. Dal primo nascondino all’universo familiare dai colori cangianti, dal sesso omaggiatogli alle corse in motorino. Entusiasmo, spontaneità, bellezza a perdita d’occhio. Ché se “il Signore si è dimenticato di lasciargli il senso” a Giovanni certo non difetta il cuore.
Tre angeli da portare in tasca e un cugino a proteggerlo. Una madre che al primo figlio “asino” si è fermata per non combattere e un padre morto per finta al solo scopo di eludere la diversità.
Il mondo che si schiude dinanzi agli occhi di Giovanni è pressappoco questo. E potrebbe pure risultare terribile se il giovane possedesse gli strumenti idonei a decodificarlo correttamente. Senza perspicacia molto di quel dolore generato dal mondo si perde invece nei rivoli della più salutare semplicità.
Le stanze mentali di Giovanni sono piccole piccole, eppure sufficienti a contenere il bello e il brutto della vita, amplificato a dismisura il primo e inconsciamente compresso il secondo. Così che le ragazzate a scuola possano essere archiviate insieme alle mostruosità della strada. Tutti mezzi idonei a dribblare la paura o a spostarla di qualche metro, senza affanno.
Vista da questa prospettiva, la diversità è un valore aggiunto, un’invidiabile condizione. Ragion per cui la catastrofe giunge inattesa e, in un sol colpo, sgretola il microscopico, all’apparenza inespugnabile, universo di Giovanni.
La drammaturgia di Luana Rondinelli, che nel vernacolo attinge a piene mani per rinvenirvi le umane miserie e quella visione della vita di periferia innanzi alla quale impatta il sociale discernimento, ben si presta al resoconto esistenziale della diversità. Tutto si gioca sul terreno retorico delle iterazioni, delle iperboli, delle metafore che richiamano le tinte forti del Sud d’Italia e al contempo tratteggiano i contorni del mondo bislacco di Giovanni.
Innanzi alla naturalezza “du biunnu” del quartiere svaniscono teatralità e artificio. Il compito dell’attore, assolto egregiamente da Giovanni Carta, alle prese peraltro con un testo polifonico, è dunque quello di procedere per sottrazione, vivendo le emozioni del personaggio attraverso la parola sporca del dialetto. Nel suo volto la fatica, nei suoi occhi lo sguardo incantato di chi a testa sutta può sempre permettersi di scompigliare l’ordine incomprensibile delle cose.
Si fatica piuttosto a decifrare un’impronta registica ben definita, nel pur sempre pregevole quadro d’insieme. Giovanni Carta, nella duplice veste di attore e regista, dimostra di conoscere a fondo i meccanismi del teatro e sa perfettamente come rapire una platea che, in mezzo a tanta spettacolarizzazione del vivere, a teatro si compiace d’un volto imperlato di sudore e d’ogni sorta di funambolismo attoriale. Non è semplice però stare dentro e fuori la scena e uno sguardo più attento può cogliere le minuscole imperfezioni che ne conseguono. Un appunto a margine che nulla intende togliere a uno spettacolo cui il pubblico ha giustamente regalato interminabili applausi.