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Applausi al Vittorio Emanuele per il Macbeth di Franco Branciaroli

Magistrale interpretazione di Franco Branciaroli nei panni del Macbeth di William Shakespeare al Teatro Vittorio Emanuele di Messina. Accanto a lui Valentina Violo, la Lady deputata a trascinare il consorte nell’efferatezza del crimine che indelebilmente sporca mani, e cuori.
È la Scozia delle guerre e dei crimini a salvaguardia della corte. La Scozia regolata da leggi divine, quella dei presagi che scatenano umani gesti, quella del rovesciamento di valori che le streghe testimoniano: “Il bello è brutto, e il brutto è bello”.
E la regia dello stesso Branciaroli punta all’essenzialità della scena, all’onirico, al buio che richiama l’imminenza della tragedia, per rischiarare la luce interiore dei personaggi, eternamente prede del male. Salta l’ordine delle cose e subentra il caos quando la violenza varca la soglia del palazzo reale e si insinua in una perversa e mefistofelica Lady Macbeth capace di distruzione e autodistruzione, al pari d’un uomo qualunque.
L’omicidio del re, simbolo del padre e del divino, trascina con sé umanità, amore, ragione. A Macbeth restano i demoni della coscienza, la solitudine e il più arduo compito che possa spettare al reo: la finzione. A meno che l’insania non mini anche quella.  Ad attrarre lo spettatore il misterioso richiamo del male prima, il sovvertimento dell’ordine poi. Dulcis in fundo, le conseguenze estreme dell’umana nefandezza: dolore, follia, morte.
La maestosità delle parole aleggia potente nel tono declamatorio di Branciaroli. Il suo soliloquio finale è quello dello sconfitto, di chi per nulla si è perso e, quel che è peggio, per nulla ha ucciso. Sontuosi ed evocativi i costumi di Gianluca Sbicca, priva di orpelli la scenografia di Margherita Palli, di grande impatto le luci di Gigi Saccomandi in una piéce che alla parte tecnica assegna un ruolo comprimario rispetto all’individuo che si muove sulla scena, coi suoi drammi, i suoi dilemmi, le sue ambiguità. Restano allo spettatore un senso di profonda inquietudine e quella triste sensazione di aver visitato i fondali dell’animo umano per scorgervi una tanto drammatica quanto atavica inadeguatezza.

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