Presso il Teatro Rendano di Cosenza, ieri 27 maggio è andato in scena “Sempre felici (Fuori dal mondo), spettacolo in due atti unici sul disagio psichico, con protagonisti l’attrice messinese Danila Tropea ed il drammaturgo napoletano Piero Zucaro, autore e regista dell’opera e fondatore dell’associazione culturale Ottavomiglio Laboratorio.
L’attrice siciliana attualmente frequenta l’Accademia di Doppiaggio di Silvia Pepitoni, diplomata alla Scuola di Musical “Vaudeville” di Messina, ha perfezionato poi la propria formazione partecipando in diverse produzioni e col regista e direttore artistico del Sistina, Massimo Piparo.
Quello di ieri sera, è stato il suo debutto da protagonista con la prosa impegnata.
A 40 anni dalla riforma Basaglia che chiuse i manicomi e “liberò i matti”, donando loro cure più efficienti e soprattutto maggior dignità e pietas, Zucaro attraverso il libro “La follia in 3d” – Trilogia drammaturgica sul disagio mentale” e successivamente con questo dramma teatrale incentrato non tanto sulla follia, bensì sull’assenza della sanità mentale, ha affrontato una delle tematiche più complesse e al contempo stimolanti su cui può cimentarsi un attore.
Due gli atti unici portati in scena nel bellissimo teatro cosentino, il primo con Danila Tropea ed il secondo con l’autore stesso. Due storie, due personalità, due patologie della stessa medaglia, la solitudine. Nel doppio monologo gli attori danno più corpi e voci alle (diverse) soggettività dei “matti” magistralmente interpretati.
Il grande palco vede in scena un divanetto, diverse sedie, due manichini, una scala, un baule e tanti giochi di luce ed un radio che tramette musica francese, da Edith Piaf ad Aznavour. Sullo sfondo una parete con rappresentata un’asettica stanza su cui giganteggia la parola “Solitudine”. È nell’isolamento che i due personaggi (una schizofrenica ed un ciclotimico) si misurano con se stessi.
E’ nell’invenzione della solitudine che scoprono il doppio, l’immagine speculare che continuamente afferma e nega la propria stessa esistenza. Nel silenzio e nel viaggio mentale che accomuna i due monologhi, entrambi i personaggi hanno la sensazione che qualcosa di terribile stia per accadere per rompere il silenzio e che un atroce sconvolgimento debba sopravvenire.
Aspettano trattenendo il respiro, sperduti nell’angoscia, ma nulla accade e l’immobilità diventa ancora più immobile e il silenzio più silenzioso. Danila affronta le sue allucinazioni e le sue turbe giocando in un grande gioco dell’oca, tra una tirata di dadi ed un balzo tra le caselle, scava nel suo io, stando attenta a non farsi trovare dai tre che lassù la stanno spiando e cercando. La sua schizofrenia nasce con la morte della sorella e con l’ossessione di ritrovarne il diario per poter avere ancora una volta un contatto con essa, poter parlar con lei a dieci anni dalla tragedia che ha stravolto la sua vita.
Entrata in scena in una candida camicia da notte bianca come la solitudine che la pervade, ne esce vestita con un outfit colorato, impellicciata e con un trucco vistoso e disturbato simile ad una bambola adulta sbavata ed inquietante.
Se nel primo atto c’è una fioca luce di speranza, nel secondo, il viaggio nella psiche e nella solitudine si fa più impervio, oscuro e tempestoso come la passione per il mare ed i velieri del primo dei pazienti interpretati da Zucaro, altrimenti diverse personalità nel corpo di un affetto da ciclotimia e da disturbi bipolari.
Di difficile comprensione per i continui balzi, Zucaro salta, corre, si affanna in un pigiama azzurro che lo identifica più ad un medico che ad un ospite della struttura.
Ora Poeta con la moleskine sempre in tasca, ora Pasquale, presenza stravagante per gli studenti di medicina, ora Aquila, mendicante non vedente che dopo la sua morte, al ritrovamento del “tesoretto” raccolto, permette agli eredi di farsi una vita in Sudamerica.
Una performance la sua in cui il personaggio alterna euforia, ottimismo eccessivo, parabole discendenti improvvise e pensieri che si succedono rapidamente, in una frenesia disorganizzata e inconcludente. Solo verso la fine, i protagonisti si trovano sul palco, destinati a sposare le proprie solitudini in cerca di una felicità fuori dal mondo. Nel complesso un testo molto ben rappresentato Da Tropea e Zucaro, abili nel calarsi perfettamente nella psiche della follia,
difficile come giusto che sia un testo impegnato di questa portata, che però guadagnerebbe e risulterebbe più comprensibile allo spettatore in una versione leggermente più snella. Difficile concentrare così tante idee in poco tempo, ma la durata complessiva di due ore potrebbe portar lo spettatore ad un calo di concentrazione inevitabile.
Presentato fuori abbonamento dalla rassegna del Rendano, la città non ha risposto come avrebbe meritato lo spettacolo, complici altri eventi concomitanti ma soprattutto il poco interesse più volte dimostrato su tematiche d’impegno sociale e d’avanguardia, prediligendo di gran lunga produzioni più classiche e divertenti.