Benché abbia sempre guardato alla critica teatrale, e in egual misura a quella cinematografica, come risultato di una percezione emotiva e non semplicemente intellettuale dell’opera, riconosco sia facile, spettacolo dopo spettacolo, finire col privilegiare la decodificazione scrupolosa del linguaggio scenico a detrimento delle ricadute emotive. E sarà per questo che, concentrata come sono sui meccanismi scenici, solo sporadicamente a teatro mi emoziono.
Ho reputato necessaria la premessa per rimarcare i meriti del Colapesce di Filippo Luna che, nell’inappuntabilità artistica della messa in scena, come pochi è riuscito a toccare le corde della mia anima.
Era l’ultimo appuntamento a Tenuta Rasocolmo del Cortile Teatro Festival. Alle spalle del pubblico il promontorio Nord e ancora più in là il mare, sul quale si posava dolcemente il tramonto.
Innanzi agli occhi, col filtro dei colori di questa terra al digradare del giorno, i personaggi di un tempo che ancora ci appartiene.
Un fischio in sottofondo a richiamare paesaggi ancestrali impressi nella nostra memoria genetica, poi il mare. Ineludibile.
È Filippo Luna, che ha adattato e diretto “Colapesce – dedicato a Buttitta” (produzione Nutrimenti Terrestri), a introdurre il giovane eroe, modernissimo, rimarcandone alla prima battuta la straordinarietà. E noi non facciamo alcuna fatica a comprendere, oggi, in un mondo votato al soddisfacimento dei bisogni personali e digiuno dell’abnegazione necessaria a perseguire il bene comune, il motivo per cui la lezione di Colapesce valica i secoli e arriva fin qui, prepotente, col suo carico di metafore, di rampogne, di moniti. E arriva sulle percussioni di Virginia Maiorana (pure alla fisarmonica nei momenti cruciali dello spettacolo) scatenato dall’acqua in quei secchi di plastica azzurri che richiamano non il tempo del mito, ma il vociare, il farneticare di un’isola alla quale si consacrano parimenti lavoro e festosità, schiamazzi e silenzi, inerzia e dinamicità.
Attorno ai secchi, negli spazi assoluti e nei non-luoghi concepiti da Dora Argento, cui si devono peraltro gli equilibri e le disarmonie responsabilmente dettati dai costumi, si muove il nostro Colapesce, interpretato da una Manuela Ventura straordinaria, che mette le proprie doti fisiche, psicologiche, tecniche al servizio del personaggio, con una presenza scenica dirompente, con un corpo che si dà alla causa senza risparmiarsi d’un solo centimetro, con la gestione mutevole della voce a rinfiancare ogni stato di coscienza.
Dentro ai luoghi della quotidianità, ancorché mediati e figurati, accanto a Cola spende il suo tempo una madre che assurge a metafora dell’universo naturale magico e tersicoreo al quale competono, alla stessa stregua, il grido disperato e il dolore composto e silenzioso.
È Alessandra Fazzino a interpretare, con grazia e potenza sbalorditive, donna Sofia, quella madre che tesse col figlio una comunicazione primigenia alla quale si consegnano, col piglio delle danze tribali, le paure, le chiaroveggenze, le preghiere, l’intermediazione necessaria tra la terra e quel figlio misteriosamente votato al mare.
Cola non va a scuola, Cola non possiede un sillabario. Nel suo sguardo cogliamo tuttavia la sapienza, il gaudio, l’imperturbabilità che competono agli eroi, quelli veri, quelli liberi.
Ché la lettura del mito a tradurre il senso d’appartenenza alla propria terra, il sacrificio estremo compiuto negli abissi, la rinuncia al mondo fuori, l’abdicazione ai sentimenti in questo tempo non bastano a chiarire il boato che scuote l’aria alla messa in scena del Colapesce di Filippo Luna.
A rendere intelligibile i riverberi della leggenda siciliana, declinata nello spazio e nel tempo, è oggi il sentimento di libertà che investe il protagonista e dal quale tutto poi discende. I legacci della famiglia, della patria, dell’amore, di un mondo, fuori, che agisce come se regole, consuetudini, cariche potessero sottrarlo finanche alla morte, non reggono al tentativo di romperli dell’uomo libero.
Colapesce che si accorge della colonna manciata, dentro a quel mare carcaruni che è casa, rovescia addosso al re la risata di libertà che tutti noi dovremmo imparare. Non v’è in lui impertinenza, solo l’acquisizione di quella consapevolezza cui si giunge attraverso la verità. Allora il sacrificio diventa il gesto supremo che afferma non solo la volontà di spendersi per un ideale, ma pure il diritto di scegliere, quello di divincolarsi dalle maglie rigide di una società che trasfigura di continuo il concetto di libertà.
Filippo Luna veste i panni del cantastorie, di Buttitta, del padre di Cola, del re di Sicilia. Porta sulle spalle la storia, la poesia, il patriarcato sulla cui inconsistenza si trovano per loro fortuna a danzare madre e figlio, il potere che si ammanta di arroganza e sventatezza. Filippo Luna ha assegnato teatralità allo statuto poetico di Ignazio Buttitta, dentro i perimetri di quel riguardo che appartiene solo ai grandi artisti, quindi ha optato per un cast eccezionale, ha tenuto le fila d’uno spettacolo che davvero esprime la corrispondenza magica di tutti i linguaggi, infine vi si è buttato dentro. Con quel magnetismo che ogni volta lusinga lo spettatore e che elude, senza sforzo, l’individualismo, piuttosto stabilendo un contatto fertile con gli altri attori.
La regia di Filippo Luna, che si presume abbia lasciato ampio spazio all’improvvisazione, è vivida, assorbe come i capricci e le screziature del mare, in un crescendo emozionale che tallona la struttura narrativa. L’equilibrio globale del lavoro è il punto di forza di questo Colapesce: la disposizione esatta di ciascun elemento, dal singolo ruolo dell’attore al ritmo calzante, dalle musiche seducenti di Virginia Maiorana alla partitura dei corpi di Alessandra Fazzino, dal montaggio corto e serrato alla sacrosanta asciuttezza formale.
Intanto Colapesce sprofonda negli abissi del mare. Quel giovane che s’affacciava per sfamare la terra, che allargava le braccia alla vita e si consegnava al mare, ci sbatte in faccia la nostra ignavia e contestualmente riqualifica gli eroi.
E, mentre gli uomini di questo mondo si affannano per inseguire l’immortalità, è per volere divino che un eroe non muoia.
Il resto è destinato a perire, persino la terra. Rimangono il mare, rimane Colapesce che del mare è una costola. Rimane questa Sicilia ove nacquero i primi uomini, questa Sicilia che è munnu, rimane Ninfa che canta, che attende, che non vuole lasciarti andare.
Rita Abela interpreta con grande accortezza quel personaggio grazie al quale Cola può finalmente versare sulla scena il suo sentire. E sono palpiti. Ed è senno fuori dalla nostra portata. È nitidezza di intelletto che ti fa dire, senza ferire, che a ogni amuri c’è un amuri cchiù ranni. È patimento dell’andar via ciancennu. È pazienza. È coraggio. È libertà.
Il monologo finale di Colapesce è straziante. Ti entra dentro le viscere e, nell’atmosfera incantata che recapita il tramonto, ti sbudella.
Poi, su questa terra che è ancora terra perché Cola la sostiene, giungono da lontano i passi della ragione che talora illumina l’uomo al cospetto dell’altro uomo, cui legittimamente si chiede conforto.
Sono e sempre saranno colonne mangiate, canali infuocati, terra che trema, mare che inghiotte. Ci sarà sempre bisogno di uno, dieci, cento, mille Colapesce per sostenere questo mondo sempre in procinto di precipitarci addosso e schiacciarci.
E la storia – si sappia – non assolve i vigliacchi.
Il teatro, dal canto suo, ha il dovere di incitare al coraggio e alla libertà.