Del sogno di Yerma e di un teatro necessario

“Il sogno di Yerma”, diretto da Domenico Cucinotta, inaugura la venticinquesima stagione ai Magazzini del Sale

Il punto di partenza “Yerma”, l’opera teatrale di Federico García Lorca (1934). Poi il complesso lavoro del gruppo di ricerca del Teatro dei Naviganti, diretto da Domenico Cucinotta con la collaborazione di Mariapia Rizzo, per entrarvi dentro, per liquefarne la materia e di nuovo plasmarla e poi distruggerla e riplasmarla e distruggerla ancora e ancora. All’infinito.

Perché è questa la ragione prima per cui si scrive: l’urgenza di essere infranti. E perché questa deve essere la ragione prima del teatro: infrangere. Un processo faticoso per il quale l’artista deve sporcarsi, deve mettersi in discussione, deve scavare a piene mani dentro di sé e tirare fuori tutto. Anche l’inservibile.

Perché questo è l’unico teatro che rompe gli equilibri, che replica al vuoto, che lascia il segno. L’unico teatro, in una parola, necessario.

Così che la rilettura dell’opera di García Lorca possa gettare le basi per un lavoro inedito dentro a una dimensione “altra”, a un universo fisico ove la scrittura drammaturgica possa adoperare materiali e linguaggi in piena autonomia e secondo categorie estetiche non necessariamente corrispondenti a quelle dell’autore.

“Il sogno di Yerma”, che inaugura la venticinquesima stagione ai Magazzini del Sale, diventa così il viaggio nella mente della protagonista. L’atmosfera è onirica e rimanda a un inconscio collettivo di matrice junghiana in base al quale alla donna compete essenzialmente il ruolo di madre, come alla terra quello di dare alla luce i suoi frutti.

Due elementi, quello umano e quello naturale, che nella messa in scena di Domenico Cucinotta si accavallano, si confondono. Perché è lì che presumibilmente si gioca la partita della nostra sopravvivenza: la capacità dell’essere umano di diventare un tutt’uno con la natura, d’essere uno tra i tanti esseri viventi, di rinunciare al proposito di prevaricare, di “sentire” esattamente come sente la terra.

Yerma porta un nome che richiama l’aridità, la sterilità. Ed è nella ricerca spasmodica della maternità che Yerma rischia di perdere di vista sé stessa, reputando che persino il sangue che le scorre nelle vene sia sangue per quel figlio che non vuole arrivare.

È insomma un desiderio, quello di essere madre, che dilania. È lo sgretolamento di tutto il resto. È la concezione atavica del ruolo della donna suffragata dal giudizio e dalle pretese della società. In un orizzonte angusto e agreste impregnato di dicerie e pregiudizi e, in quanto tale, meno incline al controllo delle pulsioni, dell’istinto primordiale.

A Yerma, cui dà abilmente voce, corpo e anima Elvira Ghirlanda, spetta, in questo gioco perverso ancorché necessario di rimandi tra donna e terra, la rivendicazione della vita fino a diventare vita ella stessa, ella stessa terra. Una concezione panica dell’esistenza in virtù della quale l’urlo di disperazione di una donna sola assurge a metafora dell’urlo dell’universo incapace d’essere fecondato, di creare, di perpetuarsi.

Le Voci che letteralmente tintinnano dentro al sogno di Yerma apparecchiano la metamorfosi della protagonista senza darlo a vedere, equilibrano il dramma, restituiscono la tridimensionalità al pensiero, sospendono l’ossessione.

Maria Pia Bilardo, Gabriella Cacia, Maria Grazia Milioti e Chiara Trimarchi esprimono con la corporeità le palpitazioni di un universo dalle mille sfaccettature. Rafforzato dai canti originali di Silvia Bruccini, dall’effetto straniante, dai toni squisitamente elegiaci.

E queste quattro presenze alle quali compete il gravoso compito, in termini attoriali, di non somigliare più a nulla, scandiscono uno a uno tutti gli scenari possibili, farcendoli ora di ironia ora di inesorabilità, salvo poi battere il tempo unico e imprescindibile: quello della tragedia, cui deve per forza di cose votarsi Yerma.

A margine, solo evocate, le presenze maschili necessarie alla fecondazione eppure così inessenziali nel viaggio interiore che prelude al cambiamento della protagonista. Una scelta non misandrica e che tutt’al più svela la solitudine dell’individuo, di qualunque individuo, innanzi all’esistenza e al bisogno di ascriverle una qualsivoglia parvenza di significato.

Da rimarcare, oltre a ciò, la magnificenza dello scrigno che contiene il sogno di Yarma: un teatro del quale Domenico Cucinotta conosce le infinite potenzialità, i segreti più nascosti, tanto da trasfigurarlo tutte le volte in un “non luogo” da abitare per quel tempo sospeso che lui metricamente cadenza, con le luci, i suoni, i movimenti esatti degli attori sulla scena.

Qui, per esempio, al fondale è assegnato uno spazio esiguo, debolmente celato da veli e svelato all’occorrenza dalle luci, di servizio, di passaggio, di trapasso. Mentre oltre i veli, senza che mai vi sia piena certezza se di qua o al di là possa abitare il vero, si svolge il dramma di una Yerma come non l’avevamo mai vista.

A lei il compito, che non si assolve senza prima essersi infangati, smembrati, annientati all’infinito, di distruggere il sogno, la speranza.

E poi? Il poi è di certo un tempo che non ci appartiene.

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