Dopo l’anteprima, “Fuocoammare” sbarca in America e marcia verso gli Oscar

Come restare impassibili innanzi alla sofferenza documentata da Gianfranco Rosi in “Fuocoammare”? Come chiudere gli occhi sull’acqua più bella e infernale di un’isola che di poco vive e generosamente si adopera per molto offrire? Come pensare che gli orrori vissuti da sponde disgraziate non ci riguardino e su di essi stendere quel velo ipocrita cui l’egoismo ci ha addestrati?

C’è chi nel mare pesca e chi nel mare muore. E c’è la vita di tutti i giorni a scorrere e a seppellire morte. Rosi, rappresentante dell’Italia agli Oscar, ha scelto di posare la cinepresa su Lampedusa, raccontandone la verità nuda e cruda; senza retorica, senza l’orpello più greve, quello del finto buonismo, del pietismo costruito.

Samuele ha appena dodici anni e cosa ne sa del fenomeno migratorio? Lui che si divide tra la scuola e il suo vivere semplice, che conosce le storie dei pescatori, il fastidio che provoca il mare agitato e quello di un occhio pigro sulle cose, metafora della più generalizzata abitudine di guardare a metà, cosa può mai sapere di ciò che rappresenti l’Europa per un migrante?

Per Samuele, per la nonna, per gli isolani cui il mare è vita, la morte è uno spettro lontanissimo.

Eppure anche i migranti uccisi dal mare, e dal sogno che rincorrevano, una vita l’avevano. E per quella c’è chi strenuamente lavora, adesso che resta in un paio di scarpe logore o negli indumenti troppi scarni per vincere il freddo del più iniquo viaggio.

L’Italia, cui ieri Rai Tre ha regalato l’anteprima di “Fuocoammare”, si appresta ad andare in America con il resoconto di Rosi che puzza di nafta. E sconfitta.

La vittoria, l’unica, è quella del cinema, testimone mai scomodo del reale.

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