L’ombrosità tipica dell’esistenzialismo, il vuoto e la nullità, il dramma che sottende alla scrittura, la leggerezza astratta e un non luogo entro cui disseppellire, senza volerlo, l’estrema verità. Questi i fondali della drammaturgia di Rino Marino, il quale si serve di una struttura compositiva per quadri funzionale al riflesso di una vita qualunque, malandata quanto si vuole, ma pur sempre vissuta. E lì, in quell’anfratto d’esistenza ove cinque giri d’orologio ne richiamano altri cinque e ancora cinque e cinque, finalmente si insinua la marginalità delle cose al cospetto delle anime. Comunicare è necessario, tanto quanto vivere. Così la recitabilità del dialetto si presta all’armonia che trasuda dalle anime più intimamente stonate e, nell’incompiutezza delle esistenze, non v’è discorso lasciato a metà, non vi sono parole senza peso né silenzi orfani di essenza.
Tutto converge verso quel punto dove chiunque prima o poi edifica la propria disfatta. ”Ferrovecchio”, che dà il titolo alla pièce magistralmente interpretata dallo stesso Marino e da Fabrizio Ferracane, è quel che resta: un ammasso arrugginito di ricordi, la precarietà a ogni centimetro di terra da battere, il desiderio di fuggire che mai si placa.
Nel salone da barbiere allestito sul palcoscenico del Clan Off il tempo si è fermato al primo scricchiolio della ragione. Un unico istante di umana follia a fissare nel quadro “cose, case, cristiani” illusoriamente scampati al tempo. Tutto sarebbe rimasto lì, immobile e indolore, se le parole non ne avessero alterato i colori.
Sfilano dunque innanzi agli occhi semplici di Ferracane il padre che andava a prendere il pane con la tessera, in camicia nera “per soverchieria”, la mula seppellita, il compare Nenè in quella notte di imprevisti che va riesumata tutt’intera, come il passato. E come il dolore.
Restano mani piene di mosche, occhi per piangere. Ché “dopo il gioco c’è il fuoco, dopo la festa la tempesta”. Mentre tutto sfuma, compresi i nomi, compresi i contorni di un tempo senza nome. E quel che accade o non accade poi non può più dirsi quando sia cominciato o finito. “Di quannu? I tannu” sintetizza del resto l’umanissima inclinazione a rimuovere, per sopravvivere. In quella generale miseria che chiamiamo esistenza, con qualche giro di giostra appena e la malasorte, per tutto il tempo, a inseguirci.
L’impronta stilistica inconfondibile e la consequenziale visione registica di Rino Marino si fregiano in “Ferrovecchio” di una raffinatezza estetica che oltrepassa i confini del dialetto per assestarsi sul terreno della poesia. E perché ciò accadesse occorreva che Fabrizio Ferracane mettesse a disposizione, come ha fatto, le sue straordinarie abilità tecniche e la sua autenticità.
Mentre tutto gli si arrugginisce attorno, mentre i pensieri stessi si infracidiscono, gli occhi gli si chiudono e la bocca intona una filastrocca che sa di ninna nanna.