L’asse temporale è sfalsato, il lessico e la struttura sintattica richiamano i paesaggi arcani e scoscesi della Lucania
Di sicuro impatto sulla platea e in perfetta consonanza con l’azione scenica, una dimensione visiva surreale contiene l’universo metaforico, il riflesso della realtà mentre sfugge all’ordine consueto. Il sistema figurativo che si pone al servizio del testo, avvalendosi di una densa impronta visiva, lo trasferisce nella dimensione spiazzante ed espiatoria di un luogo al contempo fisico e metafisico. Così che i personaggi, nel relazionarsi con lo spazio, trovino agevolmente e agevolmente perdano quella parte di sé utile alla ricognizione sull’universo del quale si intende scostare il velo dell’apparenza.
Lo spettacolo “ION”, produzione Gommalacca Teatro, scritto e diretto da Dino Lopardo, da un’idea di Andrea Tosi, in scena ieri ai Magazzini del Sale, risponde dunque alla chiamata di una manifesta urgenza comunicativa e lo fa mettendo in campo le più svariate forme espressive.
È dentro a spazi mentali, pur nella plausibilità della forma fisica, che Lopardo concepisce l’idea registica che possa leggere il suo testo e tradurne scenicamente la complessità. L’asse temporale è sfalsato, il lessico e la struttura sintattica richiamano i paesaggi arcani e scoscesi della Lucania, il dramma che vi si cela è altrettanto tortuoso, per certi versi indecifrabile. La scelta di Lopardo di convocare tutti i possibili codici artistici, da quelli visivi a quelli sonori, per la drammaturgia della scena si è rivelata pertanto vincente: “ION” è materia pulsante, è caos, è equivoco, irregolarità, tormento e, con tutto ciò, giunge allo spettatore con una forma geometricamente decifrabile. Quanto basta per bordare senza sforzo il disagio del vivere.
Paolo e Giovanni sono due fratelli imbrigliati emotivamente nell’asfittico e insalubre clima familiare che non smette più di riverberare infelicità. Il primo ancorato alla terra, il secondo goffamente proteso verso un altrove destinato a non concretizzarsi mai, come in prossimità della carta mai si concretizzano le sue parole.
Il raggio d’azione è il medesimo, il rapporto che lega i due è mutevole, ma si innesta nel terreno comune dell’impraticabilità. Differiscono piuttosto i caratteri e le differenze si esplicitano nei registri vocali, nei codici verbali, persino nelle pose che connotano l’uno e l’altro come individui ancor prima che come fratelli.
Non stride drammaturgicamente la scelta del dialetto, anzi amplifica le distanze, contrasta la regolarità della lingua, annoda personaggio e realtà, sottrae teatralità a un evento scenico “pieno”, come ho l’abitudine di definire uno spettacolo che mette armonicamente in comunicazione una pluralità di elementi.
E alla problematizzazione della vita quotidiana attorno cui ruotano gli scambi tra Paolo e Giovanni, nonché più in generale alla riuscita di “ION”, concorrono gli attori Alfredo Tortorelli, Lorenzo Garufo, Iole Franco, nella marcata differenziazione dei registri vocali e stilistici. Ora scelgono la strada dell’identificazione, ora quella dello straniamento. Si giunge insomma alla scomposizione della verità nei mille rivoli del relativismo: anche madre e padre assumono le sembianze delle proiezioni mentali dei due fratelli, il passato ristagna nelle loro teste e, filtrato dal personale sentire, cinico quanto si vuole, non è per entrambi uguale.
Ti scorrono intanto nella mente i fotogrammi di un mondo dentro al quale l’ultra HD sbaraglia il tubo catodico, dentro al quale la confessione a Don Erminio diventa la scena pruriginosa d’una commedia sexy degli anni Settanta, una spiaggia e un Super Santos la scaturigine di tutta la felicità contenibile nel cuore d’un bambino.
Ed è allora che cominciano a infrangersi i sogni disseminati nell’universo costruito da Lopardo, allora che attorno a un Giovanni qualunque, nella labilità del confine tra diversità e follia, nella condivisione fraterna del dolore, tra il gelo degli arredi metallici e tra le fredde luci, si costruisce quella severa gabbia cui solo la morte può incurvare le sbarre.
Nessuna richiesta d’aiuto, nessuna chiarificazione che rappacifichi con sé stessi, con l’altro, con il mondo. Nulla che possa anche solo lontanamente richiamare il concetto di redenzione, di speranza. Così che tutto si mescoli e, passando per i sentieri della diversità alla quale qui non si imputa lo sgretolamento di ogni cosa, piuttosto l’iniquo concorso di colpa, confusamente tutto si diriga verso l’ultima meta ove possa finalmente morire persino la morte.