Dal monastero di Mandanici, durante la residenza di drammaturgia Write 2016, dove il testo nacque, seppure in forma embrionale, all’oratorio di San Lorenzo a Palermo, fino al teatro Clan Off di Messina, “Miracolo” di Giuseppe Massa ha gradualmente riempito ogni interstizio degli spazi che l’hanno dapprima ispirato e poi ospitato, con quelle parole destinate per loro natura a lasciare la pagina scritta un istante dopo aver visto la luce, trovando ristoro nell’unica dimora possibile: il teatro.
Le ondate migratorie che attraversano il Mediterraneo, quelle da cui trae spunto il progetto, costituiscono un mero pretesto per scavare a piene mani nell’umanità disumana della quale soltanto una scrittura che abdica alla pulizia formale e si sporca invece nell’ancestralità del vernacolo può tracciare i più significativi contorni.
Sporco è dunque il dialetto che Massa fa letteralmente trangugiare ai suoi attori, come sporco è tutto lo spettacolo, in nome di una immediatezza che sputa sulla grazia ma recupera la verità esistenziale cui l’adesione personale e totale dell’attore deve assoggettarsi.
Riescono egregiamente a far ciò Glory Arekekhuegbe, Gabriele Ciciriello e Paolo Di Piazza. E riescono perché danno l’idea di vivere un episodio tra i tanti che compongono l’intero arco vitale di ciascuno come fosse l’imprescindibile passaggio dalla luce alle tenebra cui il genere umano è suo malgrado destinato.
La poetica di Giuseppe Massa sembra del resto partire da una sostanziale vocazione al tragico, entro il quale rinvenire tutte le lordure del vivere senza meta, quindi opporvi la carne, la primordialità, l’istinto, la brutalità delle bocche che masticano parole e cibo, marci entrambi, ma indispensabili.
Si parte dall’urgenza di una sepoltura. Due fratelli portano a spalla la bara senza croci e senza intarsi di un migrante, andato giusto a morire in quello spazio impossibilitato ad accoglierlo. Potrebbe averlo trasportato lì, per non doversene prendere cura, il sindaco del paese a lato. Potrebbe aver scelto il defunto stesso di arrecare disturbo, hic et nunc, all’umano cinismo che schiude sempre le ali sulla dipartita dell’Altro.
Il dialogo tra i due fratelli, permeato tutto d’un tragico umorismo che mai scade nel banale, prende le mosse dall’intento di mettere in scena i contrasti, senza l’ardire di risolverli. Sfrondandoli semmai delle più affettate sfumature e restituendoli, nudi e crudi, allo spettatore. Pugni allo stomaco, interrogativi senza risposta, miseria umana sbattutagli abilmente in faccia.
Lo spazio che li accoglie sfonda allora le pareti del teatro e miracolosamente ingloba l’intero universo, quello al quale non serve un dove per espellere una natura umana perennemente in bilico tra luce e buio.
L’urlo della donna sul quale s’apre “Miracolo” è il dolore lancinante di tutti noi al cospetto non già della morte, ma della vita. Ché la morte è una mera prospettiva, un inciampo come tanti nello scorrere inesorabile del tempo, una ingiusta beffa del destino.
La morte in mare inquina. La morte è polvere, argilla, ceramica che accoglie gli escrementi della vita. La morte è un corpo da smaltire, rifiuto tra i rifiuti che la civiltà quotidianamente produce. E la morte non è mai nemmeno morte, se giova che ridiventi vita.
Una luce fluorescente si intravede nella cassa. Tutto attorno buio. E suoni e ancora luci a coprire le imprecazioni di chi porta a spalla la morte, vi elucubra sopra e non riesce a restituire luce alla vita.
Contributo prezioso all’attenta regia di Giuseppe Massa le luci di Michele Ambrose e i suoni di Giuseppe Rizzo. Erano indispensabili colori artificiali ed effetti sonori importuni per dare rilievo alla parola, scombussolante e al contempo catartica, che svela, senza retorica, il martirio del vivere.