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“La Scuola”, con Orlando e Belvedere, a sintetizzare i disagi di un’intera categoria

Nel lontano 1992 debuttò al teatro “Sottobanco”, con la regia di Daniele Luchetti e un cast di prim’ordine capitanato da Silvio Orlando. Il cinema, tre anni dopo, ne accolse il successo e lo traspose nella ben nota pellicola “La scuola”, apripista peraltro di tutto un filone di ambientazione scolastica, dal piccolo al grande schermo. Oggi, a chiusura della stagione di prosa del Vittorio Emanuele, “La scuola” va in scena a Messina, dopo essersi riappropriata in tutta Italia della sua dimora originaria: il teatro. La produzione letteraria di Domenico Starnone, la regia ancora di Luchetti, Silvio Orlando nei panni del professore di lettere Cozzolino, Vittoria Belvedere in quelli della professoressa Baccalauro di ragioneria, e tutto un cast di attori a profondere il loro inconfutabile talento sulla scena.
È tempo di scrutini finali. Ché puntualmente, dopo un anno scolastico costellato di episodi sempre inediti, arriva il momento della valutazione a compendiare rendimento e condotte di alunni mai facili da declinare nelle loro pose e negli ambivalenti approcci con i singoli insegnanti. 
Ci si trova in una palestra che funge da sala docenti, con il pavimento resiliente di linoleum per calpestare il quale ci si deve munire di scarpe da ginnastica. Ché così vuole il preside. E quello in cui si svolge lo scrutinio è un piccolo microcosmo sociale che potrebbe sembrare enfatizzato nelle sue dinamiche a coloro i quali in un consiglio di classe non avessero mai messo piede. Eppure di nulla v’è da stupirsi: il consiglio di IV D potrebbe tranquillamente essere il consiglio di qualsi classe di qualsivoglia istituto scolastico. Dalla Val d’Aosta alla Sicilia, dal Nord al Sud d’Europa.
Tu metti insieme i membri di questa bizzarra categoria di lavoratori, falli disperare per un anno dietro la cattedra e poi comprenderai quanto logorati arrivino allo scrutinio di fine anno, dopo del quale non basterebbero mesi e mesi di vacanza per una completa riabilitazione fisica e psichica.
Le premesse dello scrutinio, grazie allo svolgimento del quale prepotentemente decolla lo spettacolo, sono tutte contenute in un primo atto che snocciola i più variegati vizi e anomalie di quei professori di IV D che ben si prestano alla tipizzazione di molti membri della categoria.
Il buon Cozzolino, che vorrebbe salvare gli alunni più scapestrati, è il tipico insegnante che al momento della valutazione punta sul background socio-culturale dei suoi allievi. Per salvarli e illudersi, così facendo, di salvare il mondo. L’indecisa Baccalauro, che tiene una posa severa, compiti a portata di mano, voti lungamente meditati, salvo poi aggiustare il tiro in itinere, combattuta tra la professionalità e l’umanità. Lei che umana dimostra d’esserlo quando, nella gita a Verona, si dimena tra la sorveglianza degli alunni e la spalla di Cozzolino.
Il frustrato Mortellaro, interpretato da Roberto Nobile, cui tocca insegnare Mallarmé a “beduini, a gente nata per zappare e in grado di apprezzare esclusivamente il cabaret di Gaspare e Zuzzurro”. Le sue insufficienze non si devono discutere. Poi, puntualmente, accade il contrario. Mortellaro è stato fatto prigioniero a sei anni e poi non è stato più rilasciato. Così la scuola è il suo carcere, il luogo in cui rabbiosamente sfogare razzismo e insoddisfazione. L’architetto Cirrotta (Antonio Petrocelli), insegnante di impiantistica, assorbito dalla seconda professione eppure stimato dal dirigente, non già per il lavoro svolto in classe ma per i termosifoni installatigli. A Cirrotta della scuola importa poco. Delle belle studentesse di più.
La professoressa Alinovi (Maria Laura Rondanini), divisa tra la storia dell’arte a scuola e i salotti culturali oltre le mura dell’istituto. Lei che relaziona sulla gita di Verona, amplificando e omettendo; lei che tiene un registro impeccabile; lei che si bea delle lodi di un preside (Roberto Citran) cui sfuggono tanto il panorama artistico quanto quello che puntualmente si dispiega innanzi ai poveri insegnanti durante i viaggi di istruzione. Il professore di religione Mattozzi (Vittorio Ciorcalo) che, in barba ai precetti cristiani, alimenta i pettegolezzi sui colleghi e non riesce a perdonare l’alunno autore di quella scritta “Mattozzi verme” che gli era stata dedicata sui muri della scuola.
Ognuno è lì, giudice per un giorno, vittima nei restanti 364 di un sistema che ti assorbe fino a risucchiarti. Lì a perdere di vista la realtà, a credere che tutto cominci e si esaurisca tra quelle mura. Si va avanti per ore a discutere su minuziosità come si trattasse di affari di Stato. Si attacca e ci si difende. Si disputa la gara per il riconoscimento di una professionalità socialmente disdegnata. Così che unico elemento in grado di assegnare alla scuola il valore che gli spetta risulti quel Cardini, il Lucignolo della situazione, che in gita sceglie autonomamente la meta e che durante le ore di lezioni simula il volo, il ronzio e la morte della mosca, facendosi beffa di quel mondo che evidentemente non si confà alla personalità complessa che, a dire del prof Cozzolino, il giovane possiede. Cardini ha bisogno, ma la scuola italiana sembrerebbe funzionare solo con chi di bisogni non ne ha. Il resto è dannazione, è fallimento, è lotta continua. E mai che un genitore ammetta di avere un figlio “cucuzza”. Ché se i figli hanno buoni voti il merito è loro, se racimolano insufficienze la colpa è sempre degli insegnanti. Il dramma, si direbbe, è corale. Ma, nella sua balordaggine, si trasforma in una commedia esilarante ove ciascuna voce sintetizza il disagio di una intera categoria. Al regista spetta il merito di averne orchestrato i deliri, le aggressività. Come non sa troppo spesso fare un preside. Agli attori il riconoscimento di aver saputo egregiamente indossare i panni di quei poveri cristi cui spetta ogni giorno l’arduo compito di seminare sapere negli aridi campi della gioventù meno collaborativa.

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