Il nuovo direttore artistico Giovanni Anfuso inaugura la stagione di prosa 2024/2025 del Teatro Vittorio Emanuele
Per il debutto al Teatro Vittorio Emanuele dello spettacolo “Le Intellettuali” di Molière, diretto da Giovanni Anfuso e prodotto dall’E.A.R. Teatro di Messina e dal Teatro della Città, che oltretutto apriva la stagione di prosa, ci si aspettava il pubblico delle grandi occasioni.
Le molte poltrone vuote lasciano aperti, invece, parecchi interrogativi e qualcosa certamente non ha funzionato se l’accoglienza riservata al nuovo direttore artistico è stata così tiepida.
Ci si limita qui, tuttavia, a raccontare una delle commedie meno rappresentate del drammaturgo francese, “Les Femmes savantes”. Per molti versi, un’opera ancora attuale, come si confà ai classici del teatro, e senza dubbio invitante a livello registico.
Giovanni Anfuso ha inoltre a sua disposizione un ottimo cast, capitanato da Giuseppe Pambieri, il quale è comunque impiegato con quell’equilibrio delle parti che già la scrittura dettava. Tocca a lui, nelle vesti del buon borghese Chrysale, aprire e chiudere la commedia che Molière aveva diviso in cinque atti e che nella messa in scena di Anfuso, pur senza compromettere la struttura narrativa, opportunamente diventano due.
Capofamiglia alla prese con un universo femminile infatuato di quel sapere miope e pedante comune a molti salotti letterari dell’aristocrazia parigina, Chrysale dichiara sin dal principio la sua difficoltà a trovare spazi quieti dentro a una casa ove regna il caos, ove spirano venti di follia, ove tutti parlano e non si capiscono. Col rischio paventato, e plausibile, di perdere la ragione.
E tocca sempre a Pambieri chiudere la parentesi, a conclusione degli eventi, ragionando sul binomio amore e follia, sulla verità, chiamando in causa la saggezza degli antichi e la concessione, purché solo una volta all’anno, alla perniciosa mancanza di senno.
Tra i due monologhi di Chrysale si dispiega la vicenda che scuote l’intera famiglia, mettendone a dura prova gli equilibri già precari.
Le sorelle Henriette e Armande, interpretate rispettivamente dalle messinesi Roberta Catanese e Isabella Giacobbe, risultano imbrigliate tra le trame delle insensatezze di quel mondo adulto di vani traguardi e altrettanto vane attività intellettuali che non mancano di coinvolgere anche la servitù.
La madre (Micol Pambieri) e la zia (Barbara Gallo) da una parte, Chrysale e il fratello Ariste (Davide Sbrogiò) dall’altra, a parteggiare le une per il matrimonio di Henriette con il poeta, dalle doti oggettivamente discutibili, Trisottin (Giorgio Lupano) e gli altri per il buon Clitandre (Eugenio Papalia). L’interesse e i sentimenti, in una collisione che valica i confini spaziali e temporali della commedia.
Ne viene fuori, com’era nelle intenzioni di Molière, un ritratto impietoso, benché divertente, della società di quel tempo.
La regia di Anfuso punta, nella direzione del folto cast cui appartengono anche Santo Santonocito, Margherita Frisone e Gabriele Casablanca, a una teatralità marcata che talora vira verso il puro artificio, verso il gesto ostentato e di maniera. Col rischio, sempre a un passo, di allontanare lo spettatore dalla realtà, di aumentare a dismisura la distanza tra l’epoca in cui fu concepita la commedia, in piena bizzarria barocca, e quella attuale.
Gli attori, sia chiaro, dimostrano grande versatilità e generosità. Talvolta però, in un clima generale di spettacolarizzazione, i loro toni risultano troppo sostenuti, la gestualità oltremodo studiata e melodrammatica. Nell’ambito delle grammatiche attoriali, il procedimento per accumulazione comporta sempre il rischio di una teatralità molto spesso esasperata, di una recitazione tutta risolta in azione, o peggio in declamazione.
Una cifra stilistica, nondimeno, soggetta al gusto personale dello spettatore e, come tale, meritevole di riguardo se armonicamente vi si conformano – ed è quel che accade – tutti gli artisti coinvolti nell’operazione teatrale. Lo spazio scenico, per esempio, è ben definito mediante gli interessanti giochi di luci di Antonio Rinaldi, in un disegno complesso, e gli elementi concepiti dallo scenografo Andrea Taddei sono tutti in linea con l’artificiosità dell’insieme. I costumi di Riccardo Cappello altrettanto bene definiscono cromaticamente i protagonisti della vicenda e li relegano con delicatezza alla fissità del ruolo mediante mantelli di velo tono su tono. Il palcoscenico ne beneficia in vivacità, come nel caso delle musiche di Luciano Francisci e Stefano Conti, perfette nel generale sovraccarico di espressività.
La reazione del pubblico è chiaramente determinata dall’idea di teatro che ogni spettatore ha in testa. E su questo occorrerebbe ragionare a lungo. Su questo e sulla rilettura dei classici alle luce di nuove categorie etiche ed estetiche, sulla nuova drammaturgia, sui giovani e sulla loro formazione, sugli spazi alternativi agli stabili e su molto altro ancora. Ma non è questo il luogo opportuno.
Quanto alla reazione del pubblico, molti applaudivano convinti, altri alquanto perplessi. Forse anche questo è il bello del teatro.
A esprimere una preoccupante disaffezione al teatro sono piuttosto le molte poltrone vuote. E quelle meritano profonde riflessioni, coscienziosi interrogativi, nuovi e lungimiranti propositi.