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Michelangelo Maria Zanghì sull’alluvione di Messina del 2009

Nuovamente accesi i riflettori su una tragedia senza responsabili

Si è conclusa ieri, nella suggestiva cornice di Tenuta Rasocolmo, la XIII edizione del Cortile Teatro Festival. 

Ultimo spettacolo della rassegna, “L’arto fantasma” della Compagnia di San Lorenzo, scritto, diretto e interpretato da Michelangelo Maria Zanghì. Insieme a lui, in scena, Alessio Bonaffini e Nunzia Lo Presti.

Pubblico delle grandi occasioni e la possibilità di degustare vini di grande pregio, accompagnati da prodotti tipici locali. 

Attraversati i vigneti, sotto un cielo stellato, e giunti nel promontorio Rasocolmo, il più a nord della Sicilia, ci si trovava immersi in un’atmosfera suggestiva. Sul palco, disposte a piramide, valigie e borse di vari colori e dimensioni. Dava le spalle al pubblico Alessio Bonaffini, seduto, nella paziente attesa che tutto avesse inizio. 

Lo spettacolo nasce dalla necessità dell’autore di porre l’accento, per non lasciare che sprofondi nell’oblio, sull’alluvione di Messina del 2009, quella che colpì la zona jonica e inghiottì ben trentasette vite.

La forte pioggia, la furia del fango, la fragilità del territorio in poche ore scatenarono l’inferno a Giampilieri, Altolia, Molino, Scaletta Zanclea e in varie altre zone limitrofe in quel terribile 1 ottobre.

L’Italia ovviamente non si fermò un solo istante a pensare, a commemorare le sue vittime. E mentre ancora si scavava nel fango e tra le macerie di villaggi distrutti, Fgci e Lega calcio decidevano di fare osservare il minuto di silenzio per le vittime dell’alluvione di Messina solo alle squadre siciliane di serie A e serie B. Come se la Sicilia non fosse Italia, come se i campi di calcio non fossero tutti uguali, in tutte le serie e a ogni latitudine, come se lo sport non avesse il dovere di promuovere dovunque determinati valori umani.

Quando entrano in scena, attraversando la platea, Michelangelo Maria Zanghì e Nunzia Lo Presti, fatte salve le battute che irrompono sul quotidiano, si parte proprio dalla deludente reazione dell’Italia alla “nostra” tragedia. 

Allora Bonaffini dispiega il suo tappeto e finalmente si volge al pubblico, per raccontare il proprio dolore. Chi resta, infatti, è costretto a fare i conti con l’assenza, come chi percepisce una parte del corpo che non c’è più, quella cui allude il titolo di questo spettacolo che mescola vita e morte, che le lascia dialogare allo scopo di rievocare l’alluvione e sentirne ancora adesso i riverberi. Ché sono esistenze spezzate, ferme sul fotogramma di un tempo bruscamente interrotto e dopo il quale le parole restano in gola, le frasi che non dovevano permanere oltre il tempo necessario a essere pronunciate rimangono invece lì. E ti risuonano nella mente all’infinito.

L’attenzione dell’autore si concentra soprattutto sugli aspetti umani, quelli circoscritti alla sfera prettamente personale, e solo sul finale vira verso un orizzonte di speranza che unicamente la vita, perpetrata dalle generazioni, può fare intravedere.

Urge pertanto ricordare prima i momenti terribili durante i quali si affondavano le mani nel fango, nel tentativo disperato di strappargli qualche vita. E lo fa in un faticoso monologo Bonaffini, attraverso il quale lo spettatore dovrebbe rivivere quel tempo, sentire addosso la disperazione e il dolore di chi li visse direttamente.

Ma non era facile trattare una materia così ricca di implicazioni emotive e gestire opportunamente i ritmi narrativi e dosare e mettere in scena il dolore senza esibirlo. Ed è alla luce di questi scogli giganteschi che si leggono talune ingenuità nell’operare scelte a livello registico e, più in particolare, drammaturgico che risentono di un fine esplicativo per nulla necessario. 

Conta tuttavia che, attraverso le esistenze di Agata, Elio e Fortunato, benché fossero spesso disallineate le rispettive interpretazioni di Lo Presti, Bonaffini e Zanghì, siano stati nuovamente accesi i riflettori su una tragedia senza responsabili, di un “fatto” che sussiste solo fuori dalle aule dei tribunali, solo dentro alla coscienza di pochi.

E questo può essere, ancora una volta, compito del teatro. Tra gli altri, tra le illimitate imprese che si compiono in un tempo ove occorre resistere, ove artisticamente spesso capita addirittura di dovere sopravvivere.

Un plauso, infine, al direttore artistico Roberto Zorn Bonaventura, a Stefano Barbagallo e Giuseppe Giamboi che insieme a lui hanno ideato il Cortile Teatro Festival, tredici anni or sono, e a tutti gli organizzatori, a chi in questa vera e propria impresa li ha sostenuti, a chi li ha ospitati. 

Tutti loro sanno evidentemente cosa significhi resistere e quanto necessario sia, oggi e sempre, quel teatro per cui non si sono mai risparmiati, mai arresi. 

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