Quel magma di bellezza, poesia e divertissement che costituisce la cifra stilistica di Özpetek

“Mine vaganti” di Ferzan Özpetek ha riempito il teatro Vittorio Emanuele di Messina per tre giorni consecutivi. Il richiamo del regista italo-turco, alle prese con la trasposizione teatrale di un film pluripremiato e campione di incassi, ha dato i suoi frutti. Lo spettacolo, peraltro, ha divertito e convinto. Non bastasse l’ovazione sul finale, a testimonianza del gradimento del pubblico ci sarebbero gli esagerati applausi a scena aperta, come fosse normale costringere gli attori a ripetute pause forzate.

Insomma, si vince facile con il secondo appuntamento della stagione nell’ambito della rassegna di prosa.

A non fare rimpiangere l’eccellente cast cinematografico sono stati ieri, nella pomeridiana che è coincisa con la duecentesima replica dello spettacolo, Francesco Pannofino nel ruolo di Vincenzo Cantone, Iaia Forte in quello della moglie, Simona Marchini a vestire i panni della nonna, vera mina vagante della famiglia, e i più giovani Erik Tonelli e Carmine Recano, rispettivamente Tommaso e Antonio. Accanto a loro, Roberta Astuti, Sarah Falanga, Mimma Lovoi, Francesco Maggi, Luca Pantini e Jacopo Sorbini. Tutti sul pezzo, tutti ben diretti e in sintonia tra loro. Tutti a dar lustro a uno script che già in origine conteneva i presupposti per una eventuale operazione a teatro.

Özpetek ha puntato a un adattamento che non stravolgesse il film scritto insieme a Ivan Cotroneo. Tant’è che la storia non subisce che qualche opportuno intervento per sottrazione volto per lo più ad accelerare il ritmo dello spettacolo.

Di gran pregio, in questa manovra sul solco della pellicola, una regia che trova varie e felici soluzioni per la conversione delle scene già sottoposte dalla macchina da presa. Özpetek sceglie di lavorare su molteplici piani narrativi, relegando la coralità al palcoscenico e superando abilmente la quarta parete per gli affondi dentro alle vite, dentro alle anime. Interessanti gli “a parte” degli attori, in prossimità del pubblico e a distanza dalla scena ove l’individuo suo malgrado si perde nelle maglie intricate delle dinamiche familiari.

Tende bianche assolvono quindi a una funzione drammaturgica, delimitando gli spazi, corroborando i piani. Ciò solleva le scene di Luigi Ferrigno dalla responsabilità di non aver osato in termini formali, come ci si sarebbe invece aspettato da uno spettacolo del regista de “Le fate ignoranti”. Il kitsch della cristalleria non basta, men che meno il luccichio del lampadario mobile. A inondare di colori la scena, passando per il riscatto delle scene nella toilette della nonna, v’è piuttosto la mano di Alessandro Lai che, per l’occasione, punta su indumenti dalle tinte chiassose.

Sulla trama si va veloce. Solo a pochi può essere sfuggito il film che narra le vicende della famiglia Cantone. Al cinema eravamo nel Salento, a teatro ci si sposta nel napoletano. Il moralismo, l’arretratezza, l’ipocrisia sono i medesimi. Due figli, un pastificio, il desiderio di affrancarsi dalla famiglia e di spiccare il volo, altrove, ovunque ci si possa concedere il lusso di essere sé stessi.

L’omosessualità può allora essere un’anomalia. E può essere una via di fuga. Quanto alla dichiarazione del proprio orientamento sessuale, primo passo verso la libertà, il povero Tommaso è battuto sul tempo dal fratello. Ed è uno sgambetto che capovolge le esistenze, che compromette i destini.

L’occhio vigile del regista si concentra tuttavia sulle reazioni della bizzarra famiglia borghese, gremita di personaggi dell’universo tipico di Özpetek. Tutti hanno un passato più o meno condivisibile alle spalle, tutti si dimenano in un presente imperfetto. Qualcuno si crogiola nel vizio più di altri, come nel caso della zia Luciana. Tutti devono fare i conti con la piazza, che sintetizza in sei lettere appena la spietatezza, la maldicenza, la derisione, la provocazione di quel nugolo di abitanti del mondo oltre la soglia di casa. Quella piazza che a teatro coincide con la platea, spettatrice inerme di un gioco al massacro che essa stessa paradossalmente ha innescato, con tanto di voce fuoricampo ad amplificarne i riverberi.

Unica vera mina vagante della famiglia la nonna, interpretata da una splendida Simona Marchini. Depositaria di segreti, dispensatrice di buoni consigli, paladina dei sentimenti veri (io l’amore l’ho accolto tutto, anche quando non ero corrisposta), una mente aperta (che brutta parola normalità) e una visione della realtà che certo non si ascrive al figlio né alla nuora, ciascuno a proprio modo attanagliato dal peso dell’altrui giudizio.

Mentre si snoda la vicenda familiare, già di per sé dilettevole, irrompono sulla scena gli amici di Tommaso. Il pubblico si diverte e questi giovani ingolfati dentro pose finte si abbandonano quando possono a un brano di Mina da intonare o, sul finale, a una performance da consumate drag queen.

È allora che il dramma dell’individuo, degli individui, si perde in quel magma di bellezza, poesia e divertissement che costituisce la cifra stilistica di Özpetek.

La verità, a teatro, dimora però nella finzione. E la verità in “Mine vaganti” è dentro al varietà, com’è dentro il congedo dell’ultima della grande dinastia delle mine vaganti: un coup de théâtre in piena regola. L’estrema esortazione al sorriso, quando dentro stai male. L’accettazione del cambiamento, dell’altro, di un mondo che non si è mai fermato. Nella cognizione, salvifica e liberatoria, che la vita – quella vera – non è mai nelle nostre stanze.

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