“Arcicoso” di Robert Pinget diventa “Un menu straordinario” e mantiene intatte le visioni di quel drammaturgo, giornalista, pittore svizzero che di Samuel Beckett era allievo e che si muoveva dentro ai medesimi perimetri del teatro dell’assurdo. La produzione è del Teatro dei Naviganti, la regia è di Stefania Pecora, coadiuvata da Elvira Ghirlanda, in scena ci sono Orazio Berenato e Chiara Trimarchi.
Due repliche, nei consueti appuntamenti di sabato e domenica, e una grande affluenza di pubblico. Lo spettacolo piace, è palesemente il frutto di un lavoro attento a ogni dettaglio. Un’ora scivola via veloce, tra risate e qualche istante sul quale ti riprometti di riflettere dopo. E poi ci rifletti. E ti rimane persino l’amaro del tentativo, vano, di dribblare la realtà con la fantasia, di cacciare la morte a suon di travestimenti, mentre quella rimane lì. Ad attenderti. Dentro agli abiti tetri che ti riportano, tuo malgrado, al comune destino.
Lo spettacolo, liberamente tratto dal testo di Pinget, ruota del resto attorno alla messa in scena del nulla. Ché la finzione necessita di veri professionisti, ché non basta indossare un abito nuovo per assegnare credibilità ai gesti di una regina e del suo ministro annoiati e desiderosi di un altrove complicato da costruire.
Sui due protagonisti incombe la natura, appesa come una pianta a quel soffitto dell’umanità che si chiama cielo. E incombe la verità dentro a uno specchio che se ne sta lì, appeso anch’esso, a ricordarti chi sei.
Le scene e i costumi di Stefania Pecora, cui si deve una regia meticolosa, temperata, che trova nel ritmo incalzante, ancorché ponderato, la strada maestra, costituiscono senz’altro il valore aggiunto d’uno spettacolo che gioca sui colori forti la partita dell’illusione contro la realtà.
Gli attori dimostrano grande versatilità e ben si prestano all’architettura registica che, nel pieno rispetto della drammaturgia, ne ha dapprima delineato i caratteri e dopo li ha messi nella condizione di agire all’interno di spazi astratti e metaforici. Persino il contesto sociale dei personaggi, che Pinget enfatizza tra le pieghe della scrittura, soggiace all’urgenza dell’artificio e letteralmente azzera le connotazioni degli individui nella società perché la storia risulti ad ampio respiro, le anime senza un tempo e senza uno spazio che le ingabbi.
Il disegno luci è sobrio, ma nella sobrietà riesce bene a scortare gli alti e bassi di uno spettacolo interamente giocato sulla sperimentazione di un mondo finto e sulla rassegnazione silenziosa al fallimento. Così che al digradare della speranza digradino pure le luci, drammaturgicamente funzionali tanto ai momenti ricreativi quanto alle soste dei due sulla precaria linea di confine tra illusione e realtà.
L’ora di svago di regina e ministro svela l’impossibilità di opporre la fantasia, fosse anche la più plausibile, al quotidiano dentro cui i due protagonisti provano a dimenarsi stuzzicandosi, sfidandosi, prendendosi gioco l’uno dell’altra e ciascuno di sé.
E nel non luogo ideale che s’azzarda ad approssimare due anime, come si approssimano due sedie fino al punto di assumere le sembianze di una panchina, sfuma il passato, si smarrisce persino la speranza di un futuro possibile. Così che tutto rimanga sospeso. Tutto si inventi e a tutto, un istante dopo, si rinunci in nome di quella realtà che non si accontenta del ruolo di comprimaria. Il velleitario tentativo di svoltare, di indovinare una via di fuga e scovare possibili altrove è dunque destinato a spegnersi innanzi al fluire inesorabile della vita che non dà scampo mai.
E qualche baleno di disperazione arriva allo spettatore col garbo di Orazio Berenato e Chiara Trimarchi che sanno porgerlo, tra una posa buffa e un disperato sforzo di spargere finzione, per sé stessi e per il mondo.
A riceverlo un pubblico che ha fame di teatro e che a teatro vuol stare bene, vuol ridere, piangere, vuole in una parola sognare.