I primi freddi di stagione fuori. Dentro, ai Magazzini del Sale, il calore del pubblico numeroso accorso al richiamo dello spettacolo “Una storia di baffi”, la nuova produzione del Teatro dei Naviganti che ha debuttato a fine novembre al Teatro di Cestello di Firenze nell’ambito del Festival “Il respiro del pubblico” organizzato dalla compagnia Cantiere Obraz.
“Una storia di baffi” è l’atto unico scritto, diretto e interpretato da Domenico Cucinotta. Accanto a lui, in scena, Mariapia Rizzo. Una coppia artisticamente rodata per uno spettacolo che gioca molto sull’affiatamento di coppia dentro le mura domestiche, che tende sulle prime a ricreare l’universo brioso e disteso delle famiglie felici e che solo in seconda battuta recapita all’indirizzo del pubblico, discosto il velo dell’apparenza, la più crudele e indecifrabile realtà.
Un uomo di cui, quantunque sia in gioco la sua identità, non udiamo mai il nome si attorciglia intorno a un particolare, i baffi appena rasi, nel tentativo scomposto di comprendere perché nessuno abbia notato il tutt’altro che trascurabile cambiamento.
Ed è un’escalation di malumore, frizione, dispiacere, indulgenza reciproca, via via che il dubbio s’insinua nella mente di un uomo cui tocca assistere allo sgretolamento delle granitiche certezze coltivate fino al mattino della rasatura. Ci si illude, insomma, di cambiare e ci si ritrova diversi nell’accezione meno sostenibile del termine.
La trama, puntellata dai suoni e dalle luci di Domenico Cucinotta che costituiscono i significanti drammaturgici di quel che ribolle sotto la superficie, si biforca: da una parte gli effetti della mente dell’uomo, dall’altra il concreto dipanarsi della matassa dalle mani delicate e amorevoli di Agnese.
Non vi sono fraintendimenti, la donna non ha ordito alcuna congiura ai danni dell’uomo. Esclusi gli interventi esterni, rimane solo il terribile deterioramento psichico in virtù del quale la realtà assume le forme deformate delle proprie proiezioni mentali.
Tutto cambia, tutto è destinato a cambiare ancora. Le pose composte e gli indumenti distinti lasciano spazio al risibile uomo nuovo che si presenta innanzi allo spettatore quando è già manifesta la volontà dell’individuo di non opporre più resistenza alla realtà.
I monologhi di Domenico Cucinotta assestano fendenti, lasciano che il passato più prossimo rassegni le dimissioni e si spalanchino piuttosto le porte a un futuro ancora tutto da definire.
Entrambi i personaggi accarezzano le paure, si girano e si rigirano nel letto delle incertezze senza palesare la benché minima avversione alle cose che, a un certo momento, vanno come vogliono andare.
La regia scandisce il tempo esatto dell’itinerario mentale e reale. I giochi di luci, i suoni, le musiche accompagnano l’uomo e la donna nel labirinto senza via d’uscita che è l’esistenza. Tutto sulla scena si impone con quella veemenza ossimoricamente soave che contraddistingue la visione registica di Domenico Cucinotta, coadiuvato in questa occasione da Gabriella Cacia.
Gli attori, dal canto loro, non potevano meglio delineare i tratti di anime tanto smarrite, senza peraltro scadere in pose struggenti, da misurare al millimetro i gesti propri nel tentativo di accondiscendere a quelli altrui. Non ferendo. Non scomparendo mai.
Ché questo esige la vita. Tra un cumulo di gocce a scandire il tempo sulle nostre teste, tra un mondo che è “tutto qui”, ma non si sa dove cominci e dove finisca, alle prese con un “guasto” da riparare all’infinito. Sprofondando sul divano dove provi invano a fabbricare nuovi sogni.