Il dramma “L’odore” di Rocco Familiari con la regia di Krzysztof Zanussi non è che abbia convinto il pubblico domenicale del teatro Vittorio Emanuele. Tiepidi applausi e quell’amaro in bocca che ho avvertito personalmente a conclusione di uno spettacolo talmente cauto da risultare insapore.
Forse il palcoscenico dello stabile messinese non si prestava a un dramma intimo che si sarebbe ben più adeguatamente accomodato in uno spazio meno esteso. Del resto non hanno funzionato né la meccanicità, drammaturgicamente fine a sé stessa, dei movimenti degli attori né il continuo e sfiancante cambio di scena scortato da luci e suoni.
Forse la regia, oltremodo intenta a salvaguardare la misura, ha finito col sacrificare la sregolatezza – quella sì credibile – delle passioni cui è manifestamente votato il testo di Familiari.
O forse contenere la vis degli attori affinché usassero il palco senza troppo vigore, persino nelle scene più drammatiche, non si è rivelata la scelta migliore. Una maggiore profondità interpretativa, di cui gli attori sono senz’altro capaci, avrebbe coinvolto maggiormente il pubblico.
Si può supporre che Zanussi abbia preteso una messa in scena che non nascondesse l’artificio e precludesse pertanto allo spettatore una fruizione esclusivamente emotiva dello spettacolo: così, e solo così, sarebbe spiegabile la rinuncia a quella autenticità dalla quale prendono le distanze i toni freddi e sostenuti dell’intero cast.
Lo spazio, farcito dalle scene di Gaetano Russo, era diviso in tre ambienti. Poca profondità e luci troppo didascaliche sul mobilio: da quelle fredde della cella a quelle calde della camera da letto, passando per l’anonimato, visivo e semantico, di una zona franca o un non luogo, se si preferisce, che si prestava a più utilizzi.
“L’odore” nasce come dramma in due atti, poi diventa un romanzo. Rocco Familiari ha scritto una vicenda forte e per molti versi cruda. La storia va oltre il più abusato triangolo amoroso. Qui tutto ruota attorno a un’assenza e all’odore che la tempera. ‘Ndria (Andrea Pittorino) consegna a ‘Ntoni (Blas Roca-Rey) l’odore della moglie (Ester Pantano) di cui l’ergastolano senza luce all’orizzonte è costretto a fare a meno. Entrano in gioco, allora, i sensi e, con essi, tutto un ventaglio di sensazioni a declinare i sentimenti più disparati. Ci si fa intenzionalmente del male, si sceglie di percorrere una strada lastricata di sofferenze e qualche fugace istante di vita vissuta “per procura”. È un climax ascendente di passioni rovinose, fino all’epilogo tragico.
In mezzo il divario sociale e culturale tra i due uomini, le incursioni della psicologa del carcere e dell’avvocato di ‘Ntoni (Monica Rogledi). In mezzo persino un agente penitenziario che non parla, ma sta lì quasi fosse un oggetto di scena.
I quadri figurativi scorrevano intanto troppo in fretta, in virtù di cambi oggettivamente celeri, a detrimento delle concrete necessità visive. Come non si avesse il tempo di assimilare una porzione del dramma che già subentrasse quello successivo. Sulle musiche di Francesco Forni, stridenti al punto giusto.
Lo spettacolo prodotto da Loups Garoux e Nuovo Imaie non è chiaramente tedioso, men che meno sgraziato. La professionalità artistica finisce sempre col consegnare al pubblico lavori meritevoli d’attenzione. Eppure con un testo come quello di Rocco Familiari reputo si potesse osare di più, alzare l’asticella del realismo, sporcando se necessario, e rendere ancora più credibili i personaggi.
Magari non ha giovato a questa pièce un palcoscenico come quello del Vittorio Emanuele, magari un ambiente più intimo e raccolto avrebbe consentito al pubblico di vivere le emozioni, oltreché assistervi. Un ambiente più intimo e raccolto come quello della Sala Laudamo, forse. Ma questa è decisamente un’altra storia.