La svolta stilistica definitiva di Auretta Sterrantino, già intuibile nel recente lavoro “Quarantena”, si conferma nello studio “Riccardo III. Suite d’un mariage”, grazie al quale una pregiata drammaturgia trova la sua ragion d’essere nell’impianto registico più adatto a risaltarne quella potenza musicale che assoggetta scena, gesti, finanche partiture. Dapprima Auretta Sterrantino costruisce le parole, poi impalca un universo fisico e visivo in grado di contenerle. Da drammaturga e regista può di fatto permettersi di rispondere con l’allestimento alla medesima logica che soggiace alla scrittura. Nel teatro, dimora per eccellenza dell’arbitrarietà, il segno ottiene la sua rappresentazione nella duplice veste di significante e significato. Grazie a esso si richiamano mondi lontani, si affondano le mani nelle acque del presente, si trasfigura la realtà per svelarne le dimensioni più recondite. Dalle sonorità spiccatamente classiche, ove la prosa ritmica si imperla di figure retoriche e virtuosismi lessicali, la parola irrompe nelle anfrattuosità della psicologia, superando l’azione alla quale la cultura teatrale greca pretendeva si piegasse e percorrendo nuovi e fascinosi sentieri.
Il dramma che si consuma sulla scena allestita da Valeria Mendolia, che privilegia quell’essenzialità di beckettiana memoria atta a mettere in risalto gesti e parole, è il dramma universale di due nature spiccatamente dissimili. È il dramma dell’uomo che prova a dimenarsi tra il bene e il male, tra quei chiaroscuri di un animo che effigiano la vita stessa, interessante laddove se ne scorgano impercettibili sfumature.
Il dramma di Riccardo III e Lady Anna poggia su un dodecasillabo che suona come una dichiarazione di guerra: “è giunto l’inverno del nostro scontento”. Lì si innesta un gioco al massacro che sovverte i ruoli atavici di genere come quelli costruiti dalla tradizione e punta piuttosto sul ridimensionamento dell’essere umano che si abbandona ai più biechi istinti. Le gibbosità del corpo si perdono in quelle dell’animo. E non v’è più netta distinzione tra bruttezza e beltà, ché tutto è parimenti disarmonico, stabilmente mutevole, parziale. “Prestato, vecchio, nuovo, blu” è la formula magica di un rito, il mariage, che diventa via crucis. È l’ossessivo reiterarsi del mantra che scorta la distruzione. È il memento mori recapitato dalla mente lucida a due esistenze esagitate dal dolore. L’amore entra trasversalmente sulla scena, richiamato per un istante da Lady Anna al fine di illuminare, per contrasto, l’odio sul quale si impernia un matrimonio di morte. “Cave canem! Cave monstrum!” è il monito che ella stessa si porge nell’atto di respingere gli istinti animaleschi che pur tuttavia suscitano gli occhi e le mani del ripugnante coniuge.
Falliscono, di contro, i ripetuti tentativi di plagio e foggiatura operati dal marito, ai quali sfugge quella donna che del risentimento ha fatto la sua unica ragione di vita.Le certezze di Riccardo III crollano via via che il miele fallace dispensato dalla sua bocca diventa veleno per le orecchie della moglie. E il veleno uccide, come la noncuranza amplifica le difformità, il ripudio la rabbia.
Sprazzi di consapevolezza nell’animo cupo di lui, che tutto ha tolto a lei, durante un sanguinoso duello, senza vincitori né vinti, giocato sul terreno della parola e dei gesti. Chiasmi a calcare la mano sull’aggettivazione che connota le cose, che assegna loro sfumature capaci di delimitarne i confini. Lo spietato Riccardo III diviene misero, impotente, in una parola umano, sotto i colpi infertigli da un’anima che il rancore ha spogliato degli abiti bianchi, per vestire dapprima di nero, poi del rosso di quella libertà ritrovata nei rivoli del proprio sangue.
E quando giunge “l’ora in cui tutto torna, non tanto com’era ma come sarà” si è ormai consumato il dramma racchiuso nella struttura circolare della drammaturgia. Nessun explicit a suggellare la morte, nel perenne divenire delle cose che cominciano, mutano, ricominciano mille e mille volte, senza esser mai degne d’un lieto o infausto finale. Un progetto ardimentoso quello di Auretta Sterrantino con il quale i due giovani attori, Giulia Messina e Michele Carvello, si sono misurati. Non è mancato loro il coraggio e non è mancata l’umiltà di scegliere la sola via possibile: quella di ottemperare agli obblighi attoriali, lasciando fuori dalla porta i guizzi e le tendenze personali. Occorreva sottostare al rigore ed entrambi non vi si sono sottratti.
Un plauso particolare meritano le musiche originali di Filippo La Marca e Vincenzo Quadarella, in grado di fondersi con le sonorità della scrittura senza mai sopraffarle, anzi amplificandone la portata concettuale. Lo studio di Auretta Sterrantino chiude il sipario sulla rassegna teatrale di Roberto Zorn Bonaventura all’interno del Capo Rasocolmo Summer Fest. E chiude su quello spettacolare tramonto che dal Promontorio Nord cala sui volti bui di Riccardo III e di Lady Anna, ora che il loro destino di solitudine e dolore si è fatalmente compiuto.